Mi chiamo Annalisa e scrivo poesie

“Settima di dominante” è il titolo della mia prima raccolta di poesie. Con questo nome in musica si indica un accordo particolare, costruito sul quinto grado di una scala, la dominante. E’ un tipo di accordo che, per le sue caratteristiche, possiede in sé una forte tensione verso il primo grado della scala, la tonica e quindi il suo accordo, quello di tonica, appunto. E’ dunque di un anelito verso un principio generatore e termine ultimo che si rendono portavoce le poesie di Settima di dominante, un “assoluto” verso cui il mio procedere ha cercato di tendere volta per volta, attimo per attimo. In “Ragioni di una poesia” di Giuseppe Ungaretti ho ritrovato, magistralmente espressa, una mia convinzione, ossia che la poesia si fa slancio verso Dio anche quando sembra rinnegarlo. Indipendentemente dal fatto di essere credenti o meno in senso stretto, ritengo infatti che, finché l’uomo avrà la forza e il desiderio di porgere parole, insieme ad esse porgerà domande e veicolerà il proprio desiderio di felicità. Così, paradossalmente, anche nel suo grido disperato sarà possibile cogliere la speranza e l’invocazione di una risposta. E risposta può anche essere l’eco di quelle medesime parole che tornano là da dove sono state pronunciate, ma tali parole non saranno più le stesse. Nell’essere state affidate dal poeta ad un naufragare in cerca di approdo, hanno sfiorato rupi, campi, volti, interni di case e da essi, dai loro contorni, sono state contaminate. Hanno accolto invocazioni da ogni dove e, forse, anche risposte. La parola chiede di essere accolta nel suo peregrinare e diventa metafora del sentire umano. Il poeta e critico letterario Stefano Raimondi, nella nota critica a “Settima di dominante”, esprime il concetto di parola-arca. Vorrei citarvi per intero quel passo: “La poesia giunge là dove la si sa ascoltare, là dove le si lascia uno spazio possibile e ampio di accoglimento e ospitalità. La poesia dice la parola ritrovata, partita da un territorio sconosciuto che, come un messaggio in una bottiglia, propone la sua richiesta di aiuto, la sua domanda. Dove trovare queste parole iniziali? Queste parole-arca? La scrittura pone in ascolto il poeta, lasciandolo accadere là dove il nulla è in agguato, dove la strada dell’incamminamento porta a contrade che non sempre si sanno ritrovare, come riconoscere. Ma perdersi a volte significa ritrovarsi e la parola della poesia spesso è proprio questo andare disperdente, è proprio questa fiducia cieca dell’ignoto: è un abbandono che va cercando”. Autore delle sette immagini in bianco e nero che introducono le sette sezioni in cui si suddivide il libro è Giovanni Calori. Sono tratte dai dodici scatti presentati alla mostra fotografica “Luce dei miei occhi”, in cui le immagini e stralci delle mie liriche hanno cercato di dar vita a un dialogo silenzioso e sinestesico. Le sfumature della parola e la timbrica della luce continuano a pulsare in queste pagine, alimentate dagli occhi di chi indugia sulla curvatura di un oggetto o si sofferma su una vocale da pervadere del proprio vissuto. Questa è la preghiera della poesia: essere riconosciuta coma acqua limpida in cui immergersi. Così, essa, nata dall’opacità dei corpi e giunta ad una luminosa trasparenza in un lento pellegrinare, accoglie nuovamente lo spessore delle membra e le densità della vita.

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